Durante i momenti di difficoltà, personali o collettivi, l’uomo è propenso a cercare quale sia il ruolo di Dio in tutto questo, spesso attribuendone a Lui la causa, e a se stesso i meriti quando le cose sembrano andare nel verso giusto.
Ma una volta finito di crogiolarsi in queste sterili domande, ci chiediamo dove questa tristezza voglia condurci? È la nostra condizione del momento a indirizzarne l’esito. Come l’apostolo Paolo sottolineava, “…noi siamo il buon odore di Cristo fra quelli che sono sulla via della salvezza e fra quelli che sono sulla via della perdizione; a questi un odore di morte, a quelli un odore di vita (II Corinzi 2:15): l’odore è il medesimo, cambia colui che lo intercetta.
Stessa cosa per il dolore e per la tristezza: essa può distruggere, se la nostra attitudine verso Dio è già profondamente ribelle e separata dalla sua volontà, come può ammaestrare provocando in noi un sincero cambiamento, un ravvedimento autentico.
Sempre Paolo distingueva tra una tristezza del mondo e una tristezza secondo Dio (II Corinzi 7:10): si faccia attenzione; la prima è una condizione che appartiene al mondo, protesa verso l’annichilimento, la seconda è un mezzo non generato dal Signore ma attraverso il quale Egli può manifestare la sua salvezza e ammaestramento, per chi si rifugia in Lui e qui resta sintonizzato.
La stessa strada, anche la più difficile, conduce ad una destinazione differente: dipende in che modo la percorriamo e come la percepiamo, e soprattutto con chi stiamo camminando. Dio è in grado e vuole trasformare il male in bene, come nella storia di Giobbe (Giobbe 42:1-4), tant’è che questi si rese conto di possedere ora una conoscenza più autentica del Signore, così come il salmista Asaf (Salmo 73:1-28), il quale comprese che nonostante la presenza delle avversità e le perplessità che queste comportavano, il suo bene era stare unito a Dio.